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Matiri, missione 10 gennaio - 27 marzo: com'è andata?

Matiri, missione 10 gennaio - 27 marzo: com'è andata?

Matiri, missione 10 gennaio - 27 marzo: 21 volontari per 75 giorni, qualche incomprensione e incidente di percorso, ma tanto lavoro e buoni risultati, tra cui l'arrivo del container.

Cari amici solo ora inizio a raccontarvi di Matiri 2018 perché il mio ritorno, il 17 marzo, non è stato dei più felici.
Sono partito da Matiri con la malaria e arrivato a Bologna continuavo a non stare benissimo per cui mi sono trovato ricoverato, senza malaria, ma con una bronco polmonite bilaterale. Ora sono a casa e direi che sto benino, anche grazie ad Anna, senza la quale probabilmente sarei morto a Nairobi o a Istanbul.
Alla missione hanno partecipato 21 volontari: oltre a me, Daniele Nasato, Monica Fareltri, Allegra Moro, Sara Lanzarini, Maria Fiorani, Fabio Piccirillo, Filippo Stefanoni, Daniele Pungetti, Anna Doro, Laura Cepelli, Sandro Mazzocato, Tonino Giuliano, Giancarlo Dall’Ava, Lucia Stefani, Anna Menegaldo, Sara Melis, Adriana Gallina, Roberto Passerini, Donatella Giamberisio, Giada Ermini e Veronica Ferrara.
Il bilancio è sicuramente positivo ma non così positivo come tutti ci saremmo aspettati. A differenza del gruppo di manutentori dell'AVI di Montebelluna, che ha lavorato moltissimo, il gruppo sanitario ha fatto una buona attività ma decisamente inferiore alla sue potenzialità e i rapporti con Padre Emilio — l'amministratore dell'ospedale scelto dalla Diocesi di Meru — sono stati complicati e meno idilliaci rispetto alle passate missioni.
Ma andiamo con ordine.

Il 10 gennaio siamo partiti in cinque.

Oltre a me, Daniele, che rimarrà per tutto il periodo, dimostrandosi la colonna portante dei volontari e di questa missione, Allegra, Sara e Monica, tre infermiere, due giovani piene di entusiasmo ed una che non è riuscita a trovare la giusta attitudine per una esperienze come quella che stavano iniziando.
Dopo la solita permanenza a Nairobi, il buon Joseck ci ha portato a Matiri dove abbiamo trovato un ospedale in lieve declino con una attività decisamente modesta. In effetti, la prima settimana abbiamo fatto veramente poco, dopo aver sistemato il nostro materiale e preparato la sala operatoria abbiamo fatto un solo intervento e curato un paio di fratture in sala gessi.
L’unica cosa importante è stata quella di sostituire alla Casa del Tamarindo — la casa dove risiedono i volontari — le due vecchie cucine a gas datate 15 anni con una nuova, comprata a Meru.
Con l’arrivo del gruppo di Montebelluna, Sandro, Tonino, Giancarlo, Lucia e Anna, dopo qualche giorno, il 19 gennaio, le cose sono migliorate perché dovendo occuparci di manutenzione, abbiamo dovuto fare una attenta ricognizione della situazione dell’ospedale e una verifica di cosa fosse o non fosse possibile fare, cercando di frenare l’entusiasmo del nostro alpino, che si è dimostrato instancabile dalle 5:00 dal mattino a notte fonda.
Il primo problema era mettere in fila le priorità e tra esse una era la disponibilità di posti letto/camere per i volontari, perché gran parte della Casa del Tamarindo e della Casa dei Medici (sei stanze su undici) era di fatto occupata da personale locale (Padre Emilio, Peter — l'anestesista —, il radiologo, il tecnico di laboratorio, una infermiera ed un impiegato).
In Italia si era parlato di due ipotesi: la prima era quella di trovare un accordo con la missione la seconda di costruire due nuove camere. Verificata l’impossibilità di concretizzare la prima ipotesi, con padre Emilio si è deciso di costruire due camere con un bagno davanti alla pediatria. E qui sono iniziati i primi problemi con padre Emilio: a fronte di una piccola costruzione, il padre si è presentato con un vero progetto fatto da un geometra (quindi pagato) di una grande costruzione su due piani con tre camere e tre bagni. Progetto a cui naturalmente non abbiamo aderito, in quanto ritenuto troppo costoso, ma che ha determinato in qualche modo l’inizio delle incomprensioni con padre Emilio.
Mentre la nuova costruzione procedeva sotto la guida di Shimali, Anna è partita per Mararal, Lucia si è insediata in cucina e Sandro, Tonino e Giancarlo hanno iniziato il lavoro dividendosi i compiti e, da squadra affiatata, hanno lavorato moltissimo facendo un lavoro straordinario, non solo in quantità ma anche in qualità.
Con l’arrivo di Fabio, Filippo e Maria il 29 gennaio l’attività sanitaria ha iniziato a crescere, abbiamo aperto l’ambulatorio di oculistica dove Maria ha fatto un lavoro straordinario, Filippo, medico internista, si è incollato al reparto e Fabio ci ha dato possibilità di mandare in ferie il buon Peter (il nostro anestesista locale).
Mentre i ragazzi di Montebelluna continuavano imperterriti il loro lavoro, anche l’attività sanitaria cresceva giorno per giorno. Aver utilizzato la nuova sala gessi, non solo allargata ma di fatto completamente ristrutturata, è stata una dimostrazione che la nostra scelta di metterla a nuovo è stata giusta.

Sembrava che tutto filasse bene ma erano in agguato alcune disavventure.

Due dei nostri, Daniele ed Anna, si sono trovati a letto con un gran febbrone malarico risolto con 24 compresse di Artemether e Lemefantrine, mentre una delle infermiere, che faceva fatica ad integrarsi e a partecipare quindi all'attività dell'ospedale, dopo un mese di difficile convivenza, a metà febbraio ha deciso di andare via prima del tempo. Questo incidente di percorso può capitare, considerando che con noi vengono tanti volontari e non tutti hanno la sensibilità o la capacità di vivere un’esperienza come quella che facciamo quando veniamo in questo piccolo ospedale in Kenya. Forse per alcuni non si rivela corrispondente alle aspettative.
Purtroppo però il vero problema continuava ad essere padre Emilio con cui non era possibile sedersi a un tavolo per affrontare la reale situazione dell’ospedale, non si riusciva ad avere alcun report (sanitario/economico) per capire perché l’ospedale fosse in stallo, ma era evidente che la crescita che speravamo avvenisse non solo non era avvenuta ma era in recessione. L’importante crescita dei parti che avevamo visto e vissuto nel 2017 era crollata, eravamo arrivati da oltre un mese e avevamo visto nascere meno di un bimbo al giorno.
Noi stavamo lavorando ma meno di quanto potessimo fare, le fratture dei bimbi erano in crescita ma la chirurgia no, gli interventi erano pochi (nove in 40 giorni), eppure l’ambulatorio e i Clinical Officers stavano lavorando.
Tutte le nostre aspettative e speranze erano legate all’imminente arrivo del container che, partito da Genova il 6 gennaio, sarebbe arrivato i primi di febbraio a Mombasa e a Matiri avrebbe riempito l’ospedale di materiale, attrezzature, presidi medico-chirurgici, strumenti e strumentari chirurgici.

L’8 febbraio esultiamo: ci comunicano che il container era arrivato a Mombasa, ma ancora non sapevamo che l’euforia sarebbe rapidamente sparita per far posto a delusione e incazzatura.

Ben presto ci siamo resi conto che lo sdoganamento ed il trasporto Mombasa/Matiri non sarebbe stato né semplice né facile.
Intanto il 17 febbraio Giancarlo, Lucia, Allegra, Sara, Fabio e Filippo sono tornati a casa liberando le stanze necessarie ai nuovi volontari in arrivo e obbligando Peter al rientro. La partenza di Giancarlo, mega pittore, ha naturalmente ridotto la forza lavoro necessaria alla manutenzione, ma Sandro e Tonino, vecchie colonne di precedenti missioni, hanno continuato ad intervenire, a testa bassa, dove era necessario fino al 2 marzo.
Il 21 febbraio finalmente è arrivato Daniele, il ginecologo, con Anna Doro e Laura Cepelli. Arrivo quanto mai gradito, dopo 40 giorni incominciavo a sentire la stanchezza, per cui ho passato il testimone al vecchio di missioni al St. Orsola. Di Daniele non c’è bisogno che dica nulla di Anna e Laura posso solo dire che la prima impressione di ragazze straordinarie si è confermata per tutto la missione. Come già detto, Anna è stata la mia badante e la mia stampella nel ritorno a casa.
Naturalmente anche Daniele ha notato immediatamente che qualcosa in ospedale non andava e questo veniva confermato dal fatto che solo dopo una settimana vedeva arrivare in questo mondo un piccolo, nato peraltro con un cesareo il 27 febbraio.
Erano passate due settimane dall’arrivo del container a Mombasa ma le notizie del suo sdoganamento erano imprecise, controverse, false, insomma nebbia, nessuno (agenzie, italiana e keniota, padre Emilio) sapeva nulla e la nostra incazzatura il nostro nervosismo stava crescendo in maniera esponenziale. Anche con padre Emilio che aveva un atteggiamento e un comportamento tale da fare sospettare che l’arrivo del container fosse più una rogna che una risorsa per l’ospedale.

Il 2 marzo avrei dovuto ritornare in Italia con Sandro e Tonino, Maria e Anna ma considerando l’impegno che avevo profuso nel progetto container e la mancanza di notizie certe, ho deciso di rimandare il mio ritorno.

Con Roberto e Anna, il 17 marzo, nella speranza di vedere il 40 piedi varcare il cancello dell’ospedale.
La partenza di Sandro e Tonino lascia un ospedale in condizioni strutturali nettamente migliori ma mi ritrovo senza coloro che ci hanno permesso di coniugare in grande sintonia l’attività sanitaria e di manutenzione.
Il 3 marzo arrivano Sara e Adriana, una bimba di 18 anni e una diciamo un po’ meno giovane: sono volontarie dall’AVI per Mararal. Dopo qualche giorno proseguono per la loro destinazione e torneranno a Matiri un paio di giorni prima della fine della Missione per ritornare tutti insieme.
Io un po’ acciaccato, sorretto da Anna, parto il 17 e lascio Daniele in buone mani con l'altro Daniele, quello giovane, Laura e tre giovani dottoresse, Donatella, Giada e Veronica, recuperate da Joseck a Nairobi dopo aver portato noi ( io, Anna e Roberto) all’aereoporto.
Il gruppo rimasto a continuare il lavoro in ospedale per gli ultimi dieci giorni è diminuito ma ancora solido e avrà il piacere e la gioia di vedere il 40 piedi varcare il cancello dell’ospedale dopo 40 giorni dal suo arrivo a Mombasa.

Scrive Daniele: «Carissimi, la mia VII missione in quel di Matiri in Kenya volge ormai al termine».

Non vi ho tediato con bilanci intermedi o commenti vari fino ad ora perché, e lo dico non senza un’ombra di tristezza, è stata caratterizzata da alcuni contrattempi. Intanto abbiamo trovato l’ospedale non così in forma come lo avevamo lasciato. Relativamente poco lavoro ed un clima interno un poco depresso. E questa condizione si è mantenuta anche durante il periodo della nostra missione. Inoltre ci siamo anche un po’ ammalati, nulla di gravissimo che non sia stato possibile curare (siamo pur sempre sanitari), ma tale da incidere sul morale. Poi, è questa la prima cosa, abbiamo aspettato 40 giorni il container mandato dall'Italia, che era fermo a Mombasa. Quando ormai disperavamo di vederlo però finalmente è arrivato ed abbiamo potuto distribuire il molto materiale da noi reperito in Italia nei vari reparti dell'ospedale con grande soddisfazione soprattutto per quanto riguarda ecografo, rianimazione neonatale e lampada per sala operatoria. Più molte altre cose che speriamo risulteranno utili. Purtroppo all'apertura del container non ha potuto assistere il nostro leader Gigi Prosperi.
A me è dispiaciuto moltissimo non vedere arrivare ed aprire il container ma Daniele and company non si sono spaventati e una volta aperto e svuotato hanno cercato di sistemare il più possibile le attrezzature importanti, stoccando in magazzino il resto. Il tutto nelle speranza che non compaiano lupi e furbetti
Quindi il 27 marzo con il ritorno a casa di Daniele 1 e 2, Laura, Donatella, Giada, Veronica, Sara ed Adriana si conclude questa ennesima missione, la prima del 2018, presso il St. Orsola Catholic Hospital di Matiri, che ha visto la presenza di 21 volontari per 75 giorni.

In conclusione.

Aldilà dei problemi avuti, la missione è stata sicuramente positiva anche se meno di quanto ci auguravamo e ci aspettavamo alla partenza.
Abbiamo lasciamo l’ospedale in condizioni strutturali migliori perché, come ho già scritto, il lavoro di manutenzione eseguito dagli amici di Montebelluna è stato straordinario, ma abbiamo trovato e soprattutto lasciamo l’ospedale ancora in difficoltà e purtroppo le cause sono sempre le stesse: la mancanza di adeguate risorse ( tecnologiche, umane ed economiche).
Ad esclusione del laboratorio che continua ad essere inadeguato, la nuova radiologia lo scorso anno e il contenuto del container hanno migliorato la situazione tecnologica (attrezzature, materiale presidi, strumenti e strumentari, ...), ma la situazione dei dipendenti è rimasta ferma e quella finanziaria molto difficile: la presenza del medico non è costante, è presente un solo anestesista, il bravissimo radiologo (Kevoh Kamau) si è licenziato, è presente un turn over di personale eccessivo, la nuova costruzione non è finita.
La situazione finanziaria, come detto, è molto difficile (spesso non vengono pagati regolarmente i salari, la bolletta della energia elettrica non era stata pagata), ma non riusciamo a capire per l’impossibilità di disporre dei report, che Emilio continua a non fornirci. Io sono assolutamente convinto che Padre Emilio faccia molta fatica a dirigere l’ospedale, quello che gli manca non è la buona volontà ma la preparazione necessaria per gestire un sistema complesso come un Ospedale.
Ad ogni modo, siamo intenzionati a trovare migliori accordi con la Diocesi insieme a tutte le associazioni coinvolte, per continuare a sostenere l'ospedale che necessita dell'aiuto e del sostegno di tutti.

Gigi Prosperi

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